Nino: “A Lampedusa non c‘è nessun centro di accoglienza”.  Me lo dice guardandomi fisso negli occhi, mentre si accende una Camel Blue. Il labbro inferiore e quello superiore accolgono il filtro con un gesto esperto, traendo a sé il fumo per poi sputarlo fuori lentamente. La sua pelle è scura come ambra, la voce profonda come una caverna buia.

Indossa una maglia a maniche corte nera, con una stampa sbiadita al centro, pantaloni chino beige e un paio di scarpe sportive ai piedi. Nonostante l’outfit informale, si muove con assoluta eleganza, scandendo parole e gesti sapientemente, in una danza in continua evoluzione che mi ricorda una vecchia commedia a cui ho assistito a teatro. Il Don Chisciotte mi pare.
“Nessun centro di accoglienza… e come vengono accolti le donne e gli uomini e i bambini che fuggono dal continente africano?”.
“Come tutti i luoghi di frontiera” mi risponde lui serio, “Lampedusa è solo un punto di approdo e di passaggio; l’isola non ha mai avuto una esperienza di convivenza e di integrazione con i migranti. Qui abbiamo un hotspot, non un centro di accoglienza. Mi piacerebbe dirti di andare a vederlo con i tuoi occhi, ma temo che la Polizia impedisca a chiunque di avvicinarsi”.
“Sono confuso. Vuole dirmi che nel 2014 e fino al governo Salvini non è mai stata fatta accoglienza?” “Tu parli degli anni in cui l’isola era candidata al Nobel per la pace. Quelli in cui Renzi aveva portato la sindaca Nicolini da Obama, in rappresentanza delle migliori donne italiane. Quando il film “Fuocoammare” veniva premiato con l’Orso D’oro a Berlino”.

“Si!” esclamo io, con un po’ troppa enfasi. Arrossisco. “No, nessuna accoglienza. Non normalmente almeno”.
Rimango in silenzio per un momento, non so cosa dire. La vetrina accecante dell’archivio rende la figura dell’uomo un’ombra scura, dipingendone i contorni in maniera netta: il capo inclinato, le spalle basse, la vita robusta, le gambe lunghe. Al centro della vetrina un televisore spento, rivolto verso la piazza. A sinistra e a destra un paio grandi pannelli arricchiti da foto in bianco e nero di alcuni scorci dell’isola e dei suoi abitanti. Ne conto quasi un centinaio.
“Dopo la tragedia del 3 ottobre” continua “alcuni naufraghi, per lo più eritrei, sono stati trattenuti a Lampedusa fino al gennaio dell’anno successivo. In quel periodo, verso sera, alcuni di loro scappavano dall’hotspot e si piazzavano di fronte alla mia vetrina illuminata. Vedi” mi mostra la foto di otto ventenni sulla stessa panchina su cui ero seduto una manciata di minuti prima” i ragazzi si mettevano qui e guardavano la tv, dove proiettavo documentari sulla storia dell’isola. Ebbene, con il tempo ho cominciato a coinvolgerli”.
“Una specie di accoglienza civile?” domando.
“Una specie. Inizialmente permettevo ai ragazzi di collegarsi a Internet e comunicare con le proprie famiglie. Facevano lunghe file fuori dalla mia porta in attesa del loro turno, che io scandivo con un timer da cucina. Avevo solo un paio di computer a disposizione. In seguito, con l’aiuto di pochissimi compaesani e volontari occasionali abbiamo organizzato anche dei corsi di italiano. Che poi, a chiamarli corsi mi viene da ridere”. Si interrompe per tirare una lunga boccata di fumo. “Sono in contatto con la maggior parte di questi ragazzi ancora oggi. Loro non possono dimenticarsi di me e io non posso dimenticarmi di loro. Sono grato oltremodo di aver vissuto questa esperienza meravigliosa”.
“Ma oggi” gli chiedo “si può fare volontariato?”
“No, impossibile” replica lui, pronunciando quelle parole come una condanna ineluttabile. “Poco meno di un mese fa è arrivato sull’isola un medico alla ricerca di qualche associazione con cui collaborare. Voleva solo dare una mano, ma non gli è stato concesso. E a molti prima di lui. Nonostante la situazione di emergenza in cui versa l’hotspot, oggi si cerca di tenere tutto quanto il più nascosto e invisibile possibile, per non compromettere gli introiti provenienti dal turismo. Scoprirai che questo è l’unico posto in Italia in cui non c’è un solo migrante in giro. Eppure, queste persone non hanno mai smesso di arrivare”.
“Dio mio. E cosa succede loro quando raggiungono le vostre coste?”
“Tutte le operazioni di sbarco, di trasferimento all’hotspot e alle navi per la quarantena sono affidate alle forze dell’ordine presenti in grande quantità sull’isola. I lampedusani non hanno più alcun contatto con i migranti e la pandemia ha reso ancora più stringenti le misure di isolamento e di sicurezza. In generale, posso dirti che, una volta recuperati al largo, vengono portati al molo e identificati. A quel punto, dei furgoni li trasportano all’hotspot, scortati da una volante della Polizia. Lì vengono smistati. Alcuni rimangono per un po’, altri vengono trasportati alla nave per la quarantena ormeggiata a Cala Pisana, altri ancora invece…”
Non finisce la frase. È entrato un visitatore, silenziosamente. Dopo aver spento la sigaretta sul vaso di fiori all’entrata, lo segue dentro e io mi accodo. “Buonasera”, saluta con garbo, e nonostante porti la mascherina lo vedo sorridere dai suoi grandi occhi stanchi. Aspetto con pazienza che l’avventore si congedi e che lui ricominci.
“Dicevo: altri ancora vengono traghettati subito in Sicilia. I minorenni vengono distribuiti nei Centri per Minori, nati come funghi negli ultimi anni. D’altronde, lo Stato paga questi centri 80 euro a minore per la presa in carico. Per i maggiorenni, invece, il governo stanzia 18 euro a persona, una cifra che non è sostenibile per alcuna associazione. Il loro destino dipende da una serie di fattori, come la presenza di parenti in Europa che possano aiutarli economicamente, un po’ di intraprendenza. Anche la fortuna ha una parte importante. Per i migranti provenienti dai Paesi con i quali ci sono accordi per il rimpatrio, in particolare Tunisia e Nigeria, il discorso cambia: quelli ricevono subito un decreto di espulsione”.
Sono senza parole, di nuovo. “Ma gli abitanti,” non demordo “loro possono dare una mano?”
Il rumore della via gremita entra nella stanza, come una strofa cantata all’unisono da un coro stonato. “I lampedusani sono preoccupati del danno di immagine che il fenomeno dell’immigrazione provoca all’economia dell’isola.” Seduto alla scrivania, lo osservo mentre seleziona un brano musicale dal computer portatile. Il secondo Impromptu di Schubert comincia a volteggiare nell’aria con una serie di scale di terzine veloci e soavi, prima discendenti e poi ascendenti, zittendo il vociare proveniente dall’esterno e addolcendo le parole appena pronunciate. “Quando, nel 2014, abbiamo accolto nella sede dell’associazione alcuni migranti per dare loro la possibilità di contattare i familiari e di imparare qualche parola di italiano, molti abitanti non apprezzarono questa nostra “ospitalità” e qualcuno arrivò a dire che, se li trattavamo bene, ne sarebbero sicuramente partiti altri. Vedi, qui tutto vive in funzione del turismo. Ogni giorno qualcuno parte dal Nord Africa e arriva sulle nostre coste, ma non vedrai nessuno di questi ragazzi in giro né sentirai notizie dai telegiornali. Quand’è l’ultima volta che hai sentito parlare di Lampedusa?” mi chiede senza nemmeno guardarmi. “La narrazione si adegua alle esigenze economiche dell’isola. Io, invece, sono pro ‘realtà dei fatti’. Non so se mi spiego”.
Forse no, penso io. Ma non ho il coraggio di replicare. Altre persone stanno entrando nella stanza e presto perderò la sua attenzione. È il momento di andare, I. mi sta aspettando.
“Grazie per tutto ciò che mi ha raccontato” gli dico sporgendomi verso di lui. “Non mi sono nemmeno presentato, io sono E.”.
Con un sorriso nudo e sincero, questa volta libero dalla mascherina, mi stringe la mano: “Piacere, Nino”.

L’Archivio storico Lampedusa
In fondo alla via Roma, nel tratto di strada pedonabile che termina sull’affaccio al Porto Vecchio, c’è un posto speciale dove è custodita la memoria di Lampedusa, la sua storia millenaria e le sue tradizioni. All'esterno, tre pannelli scuri e un’insegna rosso pompeiano contrastano con il tono chiaro delle facciate tutt’attorno e con l'azzurro del Mediterraneo che spunta dal parapetto che dà sul porticciolo. All’interno, la sede è grande poco più di venti metri quadri e ricca di elementi che catturano lo sguardo: quadri, immagini, articoli di giornale, libri rilegati, reperti rupestri, cartoline e souvenir. Mentre suona, di sottofondo, una buona musica classica, è possibile ammirare una mostra fotografica oppure consultare documenti,
visionare la cartografia dell’isola e scoprire i luoghi più interessanti da visitare. Un piccolo bookshop, inoltre, offre la possibilità di acquistare testi storici e attuali sull’isola e non solo. “Archivio Storico Lampedusa” è il nome di questo luogo magico, nato nel 2013 da un’idea di Nino, il quale, già da molti anni, si impegna a raccogliere foto, documenti e testimonianze, mettendole a disposizione della comunità per una presa di coscienza del valore del passato e delle radici storiche e culturali di Lampedusa. Oggi, come allora, l’Archivio si propone come luogo di incontro per chi crede nella cura e nel rispetto delle testimonianze del passato, nella ferma convinzione che esse costituiscano una risorsa per quanti vengono nell’isola ad apprezzare non solo lo stupendo mare, ma anche la sua storia e le sue tradizioni.

Ancora Nino
Dopo il nostro primo incontro, ero felice che Nino avesse ancora voglia di rispondere alle mie domande. Le sue parole mi avevano colpito allo stomaco e avevo davvero bisogno di capire. Quanti anni era durata l’accoglienza civile di cui mi aveva parlato? Che ruolo aveva avuto l’amministrazione comunale nella mancata integrazione dei migranti? Cosa aveva reso così ignavi gli abitanti dell’isola? Come venivano accolti, oggi, i ragazzi nell’hotspot? E quale futuro si prospettava loro? Era mattino e non c’erano molti turisti in quella parte dell’isola. Ero andato a trovarlo all’Archivio e avevamo deciso di sederci fuori, per goderci il clima mite di quelle ore.
Mi raccontò che il suo primo contatto con i migranti era avvenuto dopo la tragedia del 3 ottobre 2013, quando gran parte dei sopravvissuti era stata trattenuta sull’isola, in vista del processo che si sarebbe tenuto a Palermo solo quattro mesi più tardi. Erano in molti ad aver perso i familiari durante il naufragio e Nino aveva deciso di condividere con loro dolore e speranze, fermandosi sull’isola fino al processo. Da quel drammatico episodio, le relazioni e gli scambi con gli ospiti che nel corso degli anni passavano per l’hotspot, si fecero costanti. Formalmente, mi spiegava, essi non potevano lasciare contrada Imbriacola, ma spesso riuscivano a fuggire, riversandosi per la via del centro. Le forze dell’ordine sapevano della loro fuga quotidiana ma tolleravano la situazione, a patto che tutti tornassero all’hotspot entro mezzanotte. La loro meta preferita era l’Archivio, dove Nino permetteva loro di utilizzare il computer per mettersi in contatto con la propria famiglia. Quel luogo era diventato un punto di riferimento non solo per chi arrivava dal continente africano, ma anche dall’Europa; per dare una mano e il proprio contributo tangibile. La situazione si era protratta così fino al 2019, perché nemmeno la politica dei “porti chiusi” di quel tempo era stata capace di interrompere l’attività di salvataggio delle ONG e gli sbarchi autonomi. Naturalmente.
La quasi totalità delle persone che interagiva con i migranti, tuttavia, era esterna all’isola: Mediterranean Hope, Forum Lampedusa Solidale, la Parrocchia. Lui stesso, figlio di padre lampedusano, viveva ufficialmente a Napoli. Capitava che qualche pescatore si trovasse nella condizione di salvare delle vite, ma non erano che rari esempi di umanità, spesso nascosti ai più.
Io stesso avevo parlato con un pescatore pochi giorni prima, durante uno dei famosi giri in barca attorno all’isola. Mi trovavo in una comitiva di sei persone. Dopo la prima ora di navigazione, quando era stata gettata l’ancora e tutti si tuffavano nell’acqua mozzafiato, io mi ero trattenuto sul ponte e avevo cominciato a fare domande al marinaio. Il nostro colloquio era durato pochissimo, ma ricordo di essere stato colpito dalla sua profonda reticenza nel rispondermi. Non era a suo agio mentre mi diceva che loro, i pescatori, non potevano uscire in mare per salvare vite, al massimo potevano dare l’allarme alla Guardia Costiera. Anzi, quello erano proprio obbligati a farlo. Evitava il mio sguardo quando mi raccontava che una parte dei migranti scappava dalla guerra e dalla fame, ma un’altra, invece, veniva qui per arricchirsi. Che nella sua terra, popolata da poco più di seimila anime, non c’era spazio per tutta quella gente. Il pescatore era un uomo davvero simpatico, lo ammetto. Aveva intrattenuto tutti quel giorno, cucinando pietanze a base di pesce e offrendo la sua simpatia senza chiedere nulla in cambio. Avevo deciso di astenermi dal giudizio. Chi mai ero io per poter condannare un uomo che viveva 365 giorni l’anno in un’isola in mezzo al Mediterraneo lunga 30 chilometri e larga 15? Ma quando verso sera, di ritorno al porto, passando accanto alla nave da quarantena al largo di Cala Galera si era rivolto a una ragazza dicendole che lì, i migranti “si fanno pure la crociera”, non ho resistito e l’ho giudicato. Male.
L’atteggiamento ostile degli abitanti, mi aveva rivelato Nino, era in parte giustificato. Nel 2011, a seguito delle “primavere arabe”, l’isola aveva subito una vera e propria invasione per l’arrivo di migliaia di giovani tunisini. La permanenza forzata di questi aveva provocato forti tensioni e pericoli per la sicurezza dei lampedusani, che avevano reagito anche violentemente. Nei pressi della Porta d’Europa, il monumento di Mimmo Paladino dedicato alla memoria dei migranti che avevano perso la vita in mare, si era creato un vero e proprio accampamento che, in assenza di strutture igieniche e sanitarie, aveva reso ancora più precario il difficile equilibrio con la popolazione. La situazione era stata risolta dall’intervento del premier italiano dell’epoca, Silvio Berlusconi, che si era recato personalmente sull’isola e aveva permesso il trasferimento dei ragazzi sullo stivale attraverso sei navi da crociera. Nello stesso anno Gheddafi era stato ucciso e il fronte libico si era aperto come un frutto maturo. Improvvisamente, ad arrivare non erano più i giovani tunisini in cerca di avventura ma poveri disgraziati sui cui volti si leggeva la disperazione e le sofferenze dalle quali fuggivano. E, con loro, donne e bambini non accompagnati. In quel momento, aveva ammesso Nino, molti lampedusani diedero prova di umanità e di grande generosità. Nel pieno di questi flussi migratori, nel maggio 2012, Giuseppina Maria Nicolini era stata nominata alle elezioni amministrative sindaco del comune di Lampedusa e Linosa. Nino mi aveva spiegato che Giusi era subentrata a Bernardino De Rubeis, arrestato per una serie di reati di corruzione. La donna aveva nel suo programma il ripristino di un minimo di legalità sull’isola, che comprendeva anche la lotta all’espansione dell’edilizia spontanea e disordinata. Un’operazione senza alcuna speranza di riuscita, che ben presto l’aveva portata a un totale isolamento da parte degli abitanti. Poco dopo il tragico naufragio del 3 ottobre 2013 al largo di Lampedusa con oltre 300 morti, aveva pronunciato un discorso al vertice UE in cui chiedeva una nuova legge europea in materia di asilo e di immigrazione. Da allora e in concomitanza con il Governo nazionale di sinistra, la sindaca aveva cominciato a esporsi mediaticamente sul tema dell’accoglienza, diventandone la paladina. Tuttavia, dal momento che i migranti non potevano uscire ufficialmente dall’hotspot, durante il suo mandato non fu possibile avviare alcuna azione concreta di sostegno ai tanti ragazzi che giravano per le strade dell’isola.

L’attuale Sindaco, Salvatore Martello, anche lui di sinistra come la Nicolini, interpretando l’umore popolare, si era schierato in campagna elettorale per la chiusura del Centro e non aveva perso occasione per reclamare al Governo aiuti economici per gli isolani a risarcimento dei danni provocati dalla presenza dei migranti sull’isola. Gli ultimi fondi erano stati richiesti qualche giorno prima del nostro incontro, per recuperare le barche affondate intorno all’isola ed evitare possibili danni alle reti dei pescatori. Non una parola sui nove cadaveri di migranti che erano ancora imprigionati in un barcone affondato a poche miglia dalla costa. Nemmeno una.
Ma come erano stati accolti le donne, gli uomini e i bambini nell’hotspot in questi mesi? E in questi giorni?
La televisione non parlava più di Lampedusa da quasi due anni e mezzo. Cos’era successo?
Nino, ovviamente, portava con sé le sue risposte.
Ormai già dall’anno scorso, con il pretesto della pandemia, agli ospiti dell’hotspot non veniva consentito di allontanarsi. A nessuno dei migranti che arrivava a Lampedusa veniva concesso di presentare una domanda di asilo, anche se tutti ne avrebbero avuto il diritto, e questo perché a molti di loro, all’arrivo in Sicilia, veniva immediatamente notificato un decreto di espulsione. Essere espulsi significava trovarsi da un giorno all’altro in mezzo alla strada, senza documenti, senza possibilità di lavorare regolarmente e con grandi difficoltà economiche. Così, centinaia di persone che fino a quel momento erano detenute dalle forze dell’ordine italiane, venivano improvvisamente lasciate “libere di tornare”, a proprie spese, nel Paese d’origine.
Inoltre, a fronte di una capienza di 250 posti-letto, l’hotspot ospitava in quei giorni una media di 700 persone, con tutti i disagi conseguenti per gli ospiti ma con un notevole utile per chi gestiva il Centro. I mediatori culturali e le associazioni umanitarie che vi lavoravano non potevano far trapelare notizie di criticità perché stipendiati: rischiavano di perdere il lavoro.
Di fatto, oggi esisteva un tacito accordo tra l’amministrazione locale e il governo centrale per tenere separate e quasi nascoste tutte le operazioni di sbarco e di trasferimento, grazie al quale si era creata una situazione di relativa tranquillità sull’isola, Eppure, una adeguata politica di accoglienza avrebbe potuto ridistribuire i migranti negli ottomila comuni italiani, impiegandoli in lavori socialmente utili, permettendo loro di avere un contratto di lavoro o la possibilità di frequentare le scuole pubbliche. Si sarebbero evitate concentrazioni di centinaia di migranti “invisibili” nelle grandi città con le inevitabili tensioni sociali.

L’hotspot di contrada Imbriacola
“Polizia e Carabinieri pattugliano il perimetro dell’hotspot e non permettono ad alcuno di avvicinarsi e curiosare.”

Le parole di Nino mi risuonavano in testa. Non potevo credere che le forze dell’ordine avrebbero fermato un cittadino che si recava all’hotspot per chiedere delle informazioni sullo stato di salute dei migranti. Dovevo vederlo con i miei occhi.
I. aveva già pensato a un diversivo. Avremmo raggiunto l’hotspot in scooter, indossando il costume e inforcando l’ombrellone. “E se ci fermano lungo il tragitto?” le avevo chiesto preoccupato. “Diciamo che ci siamo persi” mi aveva risposto lei con la sua magnifica tranquillità.
Contrada Imbriacola si trovava a sette minuti dal nostro appartamento. Da via Maccaferri, avremmo dovuto dirigerci verso le Poste e, dopo un paio di curve, infilarci in via delle Grotte. Da lì avremmo visto il mare che lambiva Porto Vecchio. Girando, poi, per la ripida via Cameroni, ci saremmo trovati nei pressi di una piccola rotonda. Seconda uscita a destra e poi sempre dritti. Non si poteva sbagliare.
Scomparsa la macchia mediterranea, la forma di vegetazione prevalente a Lampedusa è la gariga-steppa e tutto, dalla natura del terreno, passando per le condizioni climatiche, fino ad arrivare alla fauna e alla flora attuali, fa pensare che l’isola appartenga geologicamente al continente Africa. Asteracee e distese di Scilla Marittima, infatti, riempivano entrambi i lati della carreggiata mentre procedevamo, lentamente, lungo la strada chiusa che ci avrebbe condotto alla meta. La parete rocciosa sulla nostra destra diventava sempre più alta e a un certo punto, alla nostra sinistra non c’erano più case, solo alberi di carrubo.
Perché non passava nessuno?
Il nostro viaggio non poteva che finire con un cancello, dietro al quale sostavano due camionette della Polizia. Otto poliziotti e un uomo vestito in mimetica conversavano fittamente e quasi non si erano accorti del nostro Scarabeo grigio. Potevo vederli attraverso le robuste sbarre in ferro. La struttura era alta più meno cinque metri e coronata da un intrico ben elaborato di filo spinato.
Dopo aver liberato la testa dal casco, mi ero avvicinato. “Scusate, posso chiedere un’informazione?”
Il militare, un uomo di bassa statura, calvo e sulla cinquantina, era l’unico che pareva avermi notato. Si era avvicinato lentamente, senza sorridere. I suoi lineamenti erano dolci, seppur contratti in una smorfia altera.
“Certo” mi aveva detto. “Che cosa le serviva?”
“Questo è l’hotspot, giusto?” Non avevo aspettato che mi rispondesse. “Ci chiedevamo se fosse possibile fare volontariato in merito all’accoglienza dei migranti”.
Aveva mostrato un’espressione accigliata, ma poi mi aveva chiesto gentilmente di aspettare. Avrebbe chiamato per noi la ragazza che si occupava del ricevimento degli ospiti.
Mentre ero in attesa, avevo cercato di capire come fosse organizzato il Centro, ma da quella posizione era praticamente impossibile. L’edificio più vicino spuntava sulla sinistra, celando ciò che si trovava dietro. Alle spalle dei due blindati si intravedeva uno spazio più ampio, probabilmente il luogo in cui le donne, gli uomini e i bambini passeggiavano la sera, non appena il calore del sole avesse dato loro un po’ di tregua. Sulla destra, in fondo, un altro fabbricato. Mi aveva ricordato le case popolari della mia città, cinte da lunghissimi terrazzi per ogni piano e costellate da finestre malconce. Appena dietro il gruppo di poliziotti, due uomini di origine tunisina si godevano l’ombra che la roccia proiettava, chini sui propri cellulari, mentre un bambino si dondolava sopra un gioco a molla troppo piccolo per lui. Il militare era tornato accompagnato da una ragazza giovane e minuta, con capelli corvini e grandi occhi incerti. Aveva detto di chiamarsi P. e di lavorare per una società, la trevigiana Nova Facility, che attualmente era l’unica organizzazione a gestire la struttura e ad avere rapporto diretto con i migranti. Escluse le forze dell’ordine, naturalmente.
“È possibile fare volontariato?” le avevo chiesto. Eravamo a un paio di metri dal cancello e nessuno sembrava interessato alla nostra conversazione. Solo un poliziotto aveva chiesto qualcosa all’uomo in mimetica, quando si era congedato da noi ed era tornato nel gruppo armato. L’avevo visto chiaramente rivolgerci uno sguardo di distaccata curiosità, pronunciando parole che non potevo sentire.
“Credo di sì, ma non sono io la persona giusta per dirvelo. Io mi occupo della parte burocratica
dell’accoglienza. Sono seduta alla scrivania a controllare documenti tutto il giorno.”
“Ma i ragazzi come stanno? Riuscite a garantire loro una buona accoglienza? Ho visto con i miei occhi arrivare 400 persone ieri, al molo Favaloro, scortati dalla Guardia Costiera. Poi sono arrivati un paio di furgoni e ne hanno caricate… quante saranno state, 25? Ma quelli erano mezzi da 12, 13 persone al massimo!”
Un passo indietro.
“L’hotspot sta affrontando una situazione di emergenza. Posso assicurarvi che non appena arrivano qui ricevono vestiti puliti e da mangiare. E poi l’hotspot è vicino al molo, ne faranno montare così tante perché il viaggio è breve. In ogni caso, qui vengono trattate bene. Il nostro staff è sottodimensionato ma facciamo del nostro meglio”.
La sua risposta mi aveva rincuorato. “Come funziona: portate qui donne, uomini e bambini, li identificate e poi li conducete subito alla nave da quarantena?”
Un altro passo indietro.
“Non proprio. L’iter è molto più complesso e non ho il tempo materiale per potervelo spiegare. Non tutti i migranti vengono portati sulla nave, comunque. Dipende”.
Ero confuso. Avevo pensato che tutti coloro che arrivavano sull’isola fossero tenuti a scontare il periodo di quarantena: una settimana sulla nave, che il tampone fosse negativo o meno. “Alcuni vengono portati direttamente in Sicilia, allora?”
P. aveva annuito.
“E poi, qual è il loro destino?” avevo chiesto.
Ancora un passo indietro.
“Non ci è dato sapere che cosa accada a quelle persone una volta che lasciano l’hotspot. Non è nostra giurisdizione. È compito delle forze dell’ordine occuparsi di queste faccende. Noi qui abbiamo già il nostro gran daffare. Ve l’ho detto, è complicato. E io devo rientrare fra pochissimo”.
Inutile insistere. “Prima hai detto che la Nova Facility è una cooperativa privata, quindi tu sei dipendente?”. “Sì”, aveva confermato.
“E qual è l’età media dei tuoi colleghi?”
“Siamo tutti abbastanza giovani. Diciamo tra i 25 e i 30 anni. E siamo una trentina in tutto”.
Diamine, erano davvero sottodimensionati. Poi aveva aggiunto, questa volta avvicinandosi: “Vuoi darmi il tuo nominativo e il tuo numero di cellulare? Ti farò contattare dalla mia responsabile che saprà dirti se è possibile fare volontariato. Sarà lei a spiegarvi, eventualmente, in che modo gestiamo le attività qui.” Ci aveva già concesso troppo tempo e troppe parole. “Ora devo proprio andare, oggi sono sola in ufficio”.
Dopo aver preso nota dei miei dati, ci aveva salutato con la mano ed era rientrata senza voltarsi. Io e I., allora, eravamo saliti sul nostro scooter e, lentamente, ci eravamo allontanati, sollevando una leggera coltre di polvere. La mia mano stretta sulla gamba di lei. Il mio stomaco contratto dall’agitazione. La mia testa ancora piena di domande.

Oρáω
Mi sono recato a Lampedusa l’ultima settimana di luglio dell’anno corrente, 2021. Prima di partire, anzi prima di organizzare il viaggio, ero pieno di dubbi. L’ultimo articolo che avevo letto sulle condizioni di vita dei migranti soccorsi nel Mediterraneo risaliva a giugno. Si trovava nell’Internazionale n.1415, formato cartaceo. Era il reportage di un giornalista investigativo, Ian Urbina, sulle donne, gli uomini e i bambini che transitavano all’interno della nave per la quarantena “Suprema”, ancorata a circa un miglio dalle coste della Sicilia. Una di quelle navi da crociera con 500 cabine, tre ristoranti, sei bar, una decina di negozi, un cinema, una discoteca e una cappella; con corridoi stretti, saloni di marmo e sale da pranzo ornate di splendidi lampadari. Sapevo che anche Lampedusa ne ospitava una e che quei posti somigliavano più a case di riposo che a navi turistiche. Immaginavo queste persone mentre dai loro piccoli oblò ci avrebbero guardato, sdraiati a oziare sopra la sabbia dorata e l’acqua azzurra: borghesi e aristocratici italiani, fortunati per diritto di nascita.
L’idea mi raccapricciava.
I giornali mainstream non parlavano di sbarchi da un paio di anni, salvo casi eccezionali. Mi tenevo aggiornato leggendo l’Ansa, il sito del Governo Italiano, Rainews, Agrigento Notizie, ma nessuno sembrava parlare delle persone tratte in salvo: come stessero, chi le avrebbe assistite, quali politiche di integrazione si sarebbero messe in atto, dove sarebbero andate. Mi ero ripromesso di capire un po’ meglio e vedere con i miei occhi quale fosse realmente la situazione sull’isola. Una sorta di patto con me stesso, la condizione necessaria e sufficiente per raggiungere un luogo così speciale. E così ero partito, insieme a I.

Sette giorni. Erano troppo pochi?
In una settimana è possibile ammirare paesaggi unici, solcare acque caraibiche, mangiare squisito pesce fresco e visitare i luoghi più rappresentativi senza nemmeno accorgersi della situazione drammatica che vive Lampedusa. Anzi, che vivono le donne, gli uomini e i bambini che ogni giorno partono dal Nord Africa per raggiungere le coste italiane.
Io invece volevo vedere, nel significato greco del termine ὁράω. In greco antico, nel perfetto terzo, nel piuccheperfetto terzo e nel futuro anteriore, questo verbo assume il significato di “sapere” in conseguenza del fatto di “avere visto”. Osservare attiva un meccanismo cognitivo che ci porta dapprima a imparare a ripetere ciò che abbiamo visto (i bambini imparano per imitazione) e, per alcuni, a domandarsi perché accade quel che vediamo. Porci questa domanda rappresenta il primo passo per capire il perché delle cose. E io ho avuto la fortuna di vedere un sacco di cose.
Ho conosciuto Nino, un uomo che porta avanti, ogni giorno, la sua personale rivoluzione culturale. Il suo lavoro è davvero difficile. Da anni cerca di recuperare una memoria storica che molti, invece, vogliono dimenticare. Il recente benessere economico portato dal turismo spinge i più a scordare la vita che si svolgeva sull’isola, fatta principalmente di pesca e regolata dalle leggi dal mare. Come se non bastasse, questo forte disinteresse sembra coinvolgere anche il passato più antico: i resti delle antiche civiltà megalitiche, le necropoli paleocristiane, gli impianti di epoca romana per la lavorazione del pesce sono ormai in stato di abbandono. Come si può trascurare un patrimonio storico e archeologico di questa portata, quando potrebbe rappresentare una risorsa economica e culturale ineguagliabile? Nino ricorda che è proprio nella storia antica che va ritrovata la naturale funzione dell’isola. Lampedusa è sempre stata un porto sicuro dove poter trovare riparo e rifornirsi di acqua, viveri e legname; un luogo dove hanno convissuto pacificamente culture e religioni diverse, rispettato da tutti coloro che vi approdavano. L’impegno di Nino è proprio quello di far ritrovare ai lampedusani quel senso di umanità che oggi si va lentamente perdendo, sempre più trascinati da egoismi e da interessi di parte.
Ho assistito allo sbarco di 400 tra uomini, donne e bambini, scortati dalla Guardia Costiera. Era mezzogiorno e dal parapetto che dà sul porticciolo, lì dove la via Roma finisce e non ci sono né bar né negozi a tentare le migliaia di turisti che durante i mesi estivi ne calpestano i grandi lastroni in pietra, si vedeva tutto il molo Favaloro. Sulla banchina erano stati allestiti due vecchi gazebo verde bottiglia, consumati dal sole, sotto i quali i ragazzi e le ragazze cercavano ristoro. Sembravano aspettare qualcosa ma non riuscivo a capire cosa. Poco dopo si erano avvicinati un paio di furgoni bianchi, probabilmente noleggiati, che avevano caricato, ciascuno, una trentina di persone, per poi riprendere la strada, scortati da una volante della Polizia. Questo rito si era consumato per una decina di volte. Ricordo quanto fossi stupito dell’ordine con cui avveniva l’“operazione di salvataggio”. Ricordo, anche, che non potevo credere al fatto che nessuno stava guardando, oltre a me e I., quello che stava accadendo. E ho capito, solo in quel momento. L’equilibrio dell’isola non doveva essere in alcun modo scalfito, davvero. I turisti, schiacciati nelle piccole e meravigliose calli durante il giorno e accalcati tutte le sere, senza mascherina, per la via principale del centro, non dovevano percepire nessun pericolo.
Ho osservato con i miei occhi l’hotspot di Contrada Imbriacola. Mentre percorrevo la strada deserta che portava al Centro, ero pieno di domande. Tanto per cambiare. Come ci avrebbero accolto le forze dell’ordine? Saremmo stati scacciati in malo modo? I. era in pericolo? Il fatto che ci fossimo presentati come dei semplici turisti, quali eravamo, è stato determinante, questo è certo. Se avessi avuto il tesserino da giornalista non avrei di certo parlato con P. e non mi sarei stupito della sua riluttanza nel rispondere ai miei interrogativi. Mi sono chiesto tante volte il perché del suo atteggiamento. Perché ci fossero tutte quelle forze di polizia. Perché non mi avessero detto chiaramente come stessere quelle persone. Perché ci fosse tutta quella omertà. Per quale motivo, uomini e donne volenterose e più competenti di me non avessero facile accesso all’hotspot proprio per lo stato di emergenza in cui versava. Ma non ho risposte. Motivi economici? Oppure volontà di nascondere condizioni di accoglienza inaccettabili?
La responsabile di Nova Facility, a cui P. avrebbe dovuto lasciare le mie generalità per essere ricontattato, non ha mai chiamato. Sono passati due mesi ormai. Da quando sono tornato, ho chiamato l’azienda trevigiana una volta a settimana, ma pare che la referente delle risorse umane sia sempre fuori sede, oppure in riunione. Tutte le volte, ho parlato con una dipendente dell’amministrazione, una signora davvero gentile, che immagino con una chioma rossa permanentata e del trucco acceso. Credo mi riconosca ormai, ha un appunto sulla sua scrivania con scritto sopra il mio nome. Mi conforta sentirglielo dire. L’ultima cosa che mi ha rivelato al telefono è che non ci sono molte persone che chiedono di fare volontariato nell’hotspot di Contrada Imbriacola. Non dal Veneto, quantomeno. Dice che la vera domanda che la risorse umane stanno indagando prima di contattarmi è più complessa di ciò che sembra: “Si può fare volontariato a Lampedusa?”


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