Qualifica Autore: Professore ordinario Università di Macerata

La filosofia di Aldo Capitini, testimone della realtà liberata.

 

L’adesione alla realtà

Oggi il mondo patisce le conseguenze della povertà politica e della regressione etica. Il sovranismo globale della finanza alimenta la reazione, a esso complementare, del sovranismo xenofobo e neofascista. Il pensiero della democrazia accogliente – fondata sulla scelta della pace, della nonviolenza, dell’ospitalità e della solidarietà tra i popoli – sembra cancellato.

Ma le tendenze antidemocratiche per ora prevalenti hanno un vizio d’origine che le corrode dall’interno: non hanno contatto con la realtà. Costruiscono scenari e obiettivi antitetici alla fisiologia della convivenza armonica e al nostro costitutivo rapporto con il Bene, la mite forza originaria che, secondo tutte le sapienze e le fedi, dà respiro alla vita del mondo. 

In questo tempo, insieme al senso dell’umano e della natura, abbiamo perso il senso della realtà. Siamo costruttori di incubi. Per questa precisa ragione l’opera filosofica di Aldo Capitini è divenuta proprio adesso più preziosa che mai. Egli ha testimoniato con ottimi argomenti la luce della nonviolenza non solo come forma di pensiero, ma anche come accesso a un altro modo di vivere. Con lui la parola “filosofia” torna a designare un modo d’essere dove pensiero critico ed esistenza integra sono tutt’uno.

In opere fondamentali – quali ad esempio Vita religiosa (1942), Religione aperta (1955) e La compresenza dei morti e dei viventi (1966) – Capitini chiarisce come la realtà abbia gradi di profondità differenti e come a essi corrispondano diverse forme di consapevolezza. Da subito sperimentiamo la realtà insufficiente, ossia inadeguata al valore di persone, animali, piante e relazioni a causa della potenza del male e della morte. L’equivoco da superare è quello di prendere questa come la realtà definitiva, affrontandola per giunta come individui a sé stanti. 

Si tratta, invece, di riconoscere, proprio nella sfida portata dal male, l’effettiva consistenza della nostra esperienza, che sta nella realtà di tutti. La vita è la comunità dei viventi, è un tessuto in cui ognuno incarna un valore infinito. È la soglia della scoperta della vita vera, per cui nessuno è isolato e nessuno si salva da solo. 

Man mano che si impara a esistere con mitezza, donandosi con lo spirito della libera aggiunta al valore di ogni creatura, si conosce il grado supremo del reale, che Capitini chiama la realtà liberata. La sua si delinea quindi anzitutto come una filosofia della realtà, il vero antidoto sia a quei “realismi” che legittimano l’adattamento degli esseri umani ai lati peggiori di se stessi e del mondo, sia alla fuga nell’irrealtà dei mondi virtuali. 

La vita è comunione

La relazione con la verità, il bene, la bellezza, la giustizia e la salvezza si fonda sempre sull’adesione lucida alla realtà, mentre la sudditanza al male implica l’equivoco, la confusione, la distrazione, la menzogna. Lo sguardo inaugurale del pensiero di Capitini coglie il contrasto tra il dolore e il valore e dà svolgimento all’intuizione escatologica secondo cui niente che sia davvero vivo è destinato a finire nel nulla. 

Nel cuore della realtà c’è come una promessa di liberazione, di completa trasfigurazione della condizione dei viventi. La vita è valore fragile eppure definitivo. Il filosofo perugino non la riduce però alle coordinate della biologia, piuttosto la riconosce originata e alimentata da un amore antecedente, divino, che non ha niente della trascendenza di un sovrano celeste e che, anzi, ha i tratti dell’infinita vicinanza a ogni creatura. 

Per lui la vita non viene dalla vita e non è destinata alla morte. La vita viene dall’amore ed è in un viaggio verso una comunione universale, che egli chiama unità amore o anche Uno-Tutti: “Nell’Uno-Tutti tutti sono eternamente presenti” (Atti della presenza aperta, in A. Capitini, Scritti filosofici e religiosi, Perugia, Protagon, 1994, p. 126)

In un contesto culturale dominato dall’idealismo di Croce e di Gentile, dal marxismo e dal cattolicesimo preconciliare, l’ontologia della comunione e la comprensione della nonviolenza come unica forma di esistenza consonante con la vita di tutti doveva fatalmente risultare non tanto criticabile, quanto irricevibile, così anomala da non rientrare nella visuale della cultura costituita. Nondimeno Capitini sviluppa con grande radicalità e perspicuità teoretica le sue intuizioni escatologiche. Il tratto tipico della sua impostazione sta nel fatto che egli pensa ogni tema al di là dei dualismi tradizionali (tra finito e infinito, storia ed eternità, umano e divino). Perciò la sua consapevolezza escatologica non riguarda i tempi ultimi, ai quali andrebbe rinviata la pienezza del bene, ma l’esperienza quotidiana e quell’apertura all’eterno di cui si scopre capace l’essere umano quando impara a esistere con amore mite e transitivo. 

Religione aperta

Il compito “religioso” di ognuno sta nell’essere davvero presente alla realtà di tutti, impegnandosi a promuovere la realtà liberata. Qui la religione è tutt’altro che un’appartenenza esclusiva o la mera credenza in un’entità sovrannaturale del tutto separata dal creato; si tratta, invece, di un modo di esistere che si affida all’amore antecedente e transitivo, assumendo per vero e vincolante il legame vitale con i due gradi più profondi della realtà. Per chiarirlo Capitini parla di religione aperta, ravvisando nella religione chiusa i tratti della regressione egoistica e del dualismo infondato che spezza la relazione tra Dio e il creato.

In un approccio superficiale la via aperta dall’autore può essere giudicata astratta; al contrario, egli ci invita a superare la cappa oppressiva delle ovvietà per sperimentare piuttosto la concretezza dei gradi di profondità del valore. Essi sono individuati nella leale ricerca della verità, nel servizio alla giustizia, nella consonanza con la bellezza, nell’esercizio della bontà e soprattutto nell’accoglienza del tu vivente di chi incontriamo. È tipico di Capitini il fatto che il culmine del valore sia colto, più che in una idealità, per quanto essenziale, nella presenza di esseri viventi. Verità, giustizia, bellezza, bontà sono valori che fanno respirare, mentre persone, animali, piante, relazioni e Dio stesso sono valori che respirano

I due tipi di valore devono correlarsi, mai separando i valori ideali dai valori incarnati. Tale correlazione si gioca nell’azione quotidiana. Infatti, da questo orientamento filosofico sorge naturalmente l’impegno a una prassi politica di cui, con il singolo, sono protagoniste libere comunità territoriali dedite alla cura del bene comune. La nonviolenza è azione per la giustizia risanatrice e per la liberazione di chiunque sia stato reso vittima.

Dalla società disperata al mondo comune

Un bilancio della validità della filosofia capitiniana deve evidenziare almeno tre acquisizioni essenziali. La prima è spirituale: egli ci insegna che la vera svolta della nostra vita è di ordine spirituale e consiste nell’aderire all’amore che fonda e genera la comunione. Tutto ciò che esula da questo è falso e distruttivo. 

La seconda acquisizione indica il processo di gestazione di una civiltà rigenerata, che superi finalmente la logica violenta delle identità esclusive nonché il culto della potenza e della proprietà. 

La terza, infine, è di ordine esistenziale e politico, perché schiude la via per la liberazione dall’attaccamento al potere. Anziché cercarlo come se fosse la risposta alla fragilità umana, si tratta di accogliere quest’ultima facendo della democrazia una onnicrazia che si traduce in servizio alla vita comune, cura delle esistenze, dedizione a chi più rischia di essere travolto dal male.

Seguire Aldo Capitini nel suo viaggio dentro la realtà, imparando a vederla con occhi nuovi e più lucidi, significa uscire dalla logica delirante della sopravvivenza aggressiva e sentire finalmente che siamo una sola vita. La sua filosofia è una fonte cognitiva e motivazionale del cammino oltre l’attuale società disperata, verso un mondo davvero comune e abitabile con dignità da chiunque.